Chiamata a raccolta
Una delle grandi sfide che sta affrontando tutto il pianeta è la gestione dei rifiuti: ne produciamo tanti, troppi (spesso colpa di un packaging superfluo), ma soprattutto solo in minima parte il rifiuto prodotto ha una seconda vita.
Ci chiediamo infatti dove vanno a finire i sacchetti che depositiamo fuori dal portone oppure negli appositi cassonetti? Tendenzialmente no, perché non è materia che genera interesse. Già è faticoso dividere le varie parti per la differenziata (se la facciamo), figurati se vogliamo sapere dove va a finire.
Invece sarebbe importante saperlo, perché proprio dai dati derivanti dal ciclo integrale della raccolta, potrebbero uscire risultati sorprendenti e, dove ce ne fosse necessità, anche proposte migliorative concrete.
Facciamo un rapido elenco dei numeri: il Comune di Siena ha una percentuale di raccolta differenziata del 43,57% (ISPRA – 2019), contro una media nazionale del 61,35% e regionale del 60,1%.
[L’obiettivo nazionale si attesta attorno al 65%, quota che avrebbe dovuto essere raggiunta al 31.12.2012 e che invece vediamo ancora lontana].
La domanda che ci dovremmo porre è: perché una percentuale così bassa?
Istintivamente le risposte che mi sovvengono, non conoscendo a fondo la materia e basandomi sull’esperienza personale (lo so che non si fa, ma ogni tanto può fare comodo) sono due: non c’è il rifiuto organico, se non in alcune zone, e nel centro storico il sistema di raccolta non è efficace.
Ho citato l’esperienza personale perché, facendo spola settimanalmente fra Siena e Roma (che certo non brilla per la gestione dei rifiuti), mi sono imbattuto nella raccolta degli scarti di cibo e mi sono reso conto che circa 3/4 di quello che solitamente va nell’indifferenziato (e quindi bruciato o “termovalorizzato“) in realtà finisce nell’organico. Quest’ultimo poi viene prelevato attraverso la raccolta ed inviato agli impianti di compostaggio, dove si ottiene un compost utile per orti e giardini. Bisogna precisare che non sempre il compost prodotto è di tale qualità da essere venduto, ma al fine di restituire forza ai suoli (la Mission for Soil è una delle 5 missions della Commissione Europea, sintomo che i terreni non stanno benissimo), è necessario trarne profitto?
Se poi ci vogliamo affidare ai numeri anziché all’esperienza personale, basta fare un confronto con Trento, uno dei comuni più virtuosi d’Italia nella raccolta differenziata: i materiali dove il divario è più sostanziale sono la plastica e l’organico appunto, dove si registra un 40-50% di distacco.
La seconda esperienza personale è la classica gita in Trentino Alto Adige, Val di Fassa per la precisione. Fra le note della casa presa in affitto per la settimana, c’erano le indicazioni per l’utilizzo del chip necessario ad aprire i bidoni disposti vicino all’abitazione (molto simili alla tessera che hanno i cittadini fuori le mura). Il sistema si presentava semplice, i bidoni erano contestualizzati col paesaggio (sempre bidoni erano, non fatevi idee strane, ma sempre meglio di quelli con le ruote), di conseguenza il risultato per i cittadini ottimale. Soprattutto per un fattore, che sembra trascurabile, ma non lo è: il tempo. Puoi buttare la spazzatura quando vuoi, non hai orari e giorni fissi (qua invece se sbagli o prendi il sacco e lo riporti a casa oppure prendi una partaccia dal vicino perché lo hai lasciato lo stesso, incurante del poco igiene che comporta un sacco abbandonato in strada), non rischi di invadere angoli esteticamente rilevanti con pile di sacchetti maleodoranti. In più, aggiungo io, il centro sarebbe meno ostaggio la mattina dei camioncini della nettezza urbana, che altresì potrebbero scegliere orari più consoni per lavorare con più tranquillità.
Quindi, se domani venisse un Sindaco in stile Homer Simpson, promettente di risolvere i problemi e migliorare i risultati, saremo a posto così?
La risposta è no, perché dopo la raccolta c’è il trattamento e l’eventuale riutilizzo.
Per quanto l’Italia abbia dei numeri importanti nel riciclo (76% di tutto il prodotto) va detto che fatichiamo a dare una seconda vita a quest’ingente mole di materiali. Per la plastica, ad esempio, solo il 43,5% viene infatti realmente trasformato in nuovi oggetti – peraltro di qualità spesso inferiore rispetto a quelli originali – mentre il resto va in discarica o all’inceneritore. Il tutto aggravato dalla decisione della Repubblica Popolare Cinese di non importare più la plastica dall’estero. Una decisione che interrompe, in piccola parte, quello scaricabarile odioso della nostra impronta ecologica, molto simile all’altra sfida planetaria della produzione di energia elettrica, che necessita un approfondimento specifico.
Siena potrebbe quindi prendere l’occasione al volo (in Italia le strutture per il trattamento sono poche e con pochi margini riguardo i materiali), e assurgere a modello per l’Italia intera, predisponendo, attraverso l’intervento pubblico, una filiera innovativa che va dalla ricerca (necessario quindi il coinvolgimento dell’Università di Siena) alla realizzazione finale di manufatti utili alla comunità. Il tutto sfruttando quella rete di collaborazione già esistente, spesso osteggiata, che va dalla Provincia a tutti gli enti pubblici e privati che ne fanno parte.
Alcuni esempi virtuosi vicino a noi ne abbiamo (vedi per esempio il sistema di recupero dei prodotti assorbenti sorto a Treviso qualche anno fa), crediamoci.
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